Il termine influencer è ormai di gran moda nel settore delle pubbliche
relazioni digitali, tanto da rappresentare ormai un mantra per chi si occupa di
online reputation: in questo ambito,
si definisce influencer una qualsiasi
figura che esercita influenza in virtù della propria visibilità e reputazione,
su un determinato pubblico. Il lavoro con gli influencers serve solitamente
alle aziende per (ri)posizionare la percezione nei confronti di un marca e a
supportare così la solidità del business anche nel medio e lungo termine.
Se inizialmente gli influencers venivano utilizzati
soprattutto da imprese interessate a far conoscere i propri marchi e prodotti,
in questi ultimi mesi il valore del passaparola mediato da un’opinion leader (già al centro delle
ricerche su consumo e comportamento di voto in epoca pre-digitale, realizzate
negli anni Quaranta e Cinquanta da Paul Lazarsfeld) è stato scoperto anche da
chi promuove cause, idee e campagne politiche (recente la notizia di un
tentativo di coinvolgimento di influencers
da parte del PD di Matteo Renzi in vista del referendum costituzionale di
autunno).
Anche l’ISIS ha scoperto il
valore degli online influencers per promuovere
la Jihad su scala globale, e non è un caso che i protagonisti di attacchi
suicidi diventino subito dei protagonisti della sfera pubblica digitale fondamentalista,
originando tentativi di emulazione da parte di followers facilmente suggestionabili. Il ruolo degli influencers che stanno dalla parte
sbagliata e degli sprovveduti followers
è stato ad esempio molto dibattuto a seguito dei più recenti casi di attacchi
di matrice terroristica in Francia e Germania.
Il caso di Monaco di Baviera
dimostra però che la rete, da veleno, può facilmente trasformarsi in antidoto
contro la degenerazione di episodi isolati in ansia e panico generalizzati. Su Twitter, ad esempio, la Polizia Tedesca ha
potuto informare in maniera corretta e precisa i cittadini e ha trovato una
modalità efficace e innovativa per gestire l’ordine pubblico, la cui
instabilità sarebbe potuta diventare un ottimo alleato per eventuali emulatori
dell’attentatore. Già in occasione degli attacchi di Parigi e Bruxelles,
Twitter si era dimostrato un efficace strumento per pratiche di citizen journalism da parte di cittadini
inermi scampati alle stragi terroristiche, oppure per permettere agli abitanti
delle zone colpite di mostrare la propria disponibilità ad accogliere chi si
trovava per strada (con il celebre hashtag #pourteouverte).
In questo caso, la Polizia Tedesca non solo si è servita del medium di microblogging per informare e portare
ordine, ma ha anche chiesto ai cittadini di Monaco di non postare foto delle
vittime appena massacrate, con un’operazione di educazione al corretto uso dei social media che solo una branca del
potere statuale può svolgere nel miglior modo.
Il caso di Monaco dimostra quindi
che le più importanti piattaforme digitali, sotto accusa oggi per dare troppo
spazio alla voce dei cattivi influencers,
potranno certamente diventare uno strumento di alfabetizzazione digitale, in
particolare nell’era dell’ubiquità dell’immagine e della facile diffusione dei
video (che in altri contesti sono ad esempio all’origine di fenomeni di
cyberbullismo tra i giovani in età scolare), solo se cederanno parte della
sovranità su algoritmi e dati degli utenti ai portatori di interessi collettivi
facenti parte dell’apparato statale.