mercoledì 27 luglio 2016

Quando gli influencers stanno dalla parte sbagliata.

Il termine influencer è ormai di gran moda nel settore delle pubbliche relazioni digitali, tanto da rappresentare ormai un mantra per chi si occupa di online reputation: in questo ambito, si definisce influencer una qualsiasi figura che esercita influenza in virtù della propria visibilità e reputazione, su un determinato pubblico. Il lavoro con gli influencers serve solitamente alle aziende per (ri)posizionare la percezione nei confronti di un marca e a supportare così la solidità del business anche nel medio e lungo termine.
Se inizialmente gli influencers venivano utilizzati soprattutto da imprese interessate a far conoscere i propri marchi e prodotti, in questi ultimi mesi il valore del passaparola mediato da un’opinion leader (già al centro delle ricerche su consumo e comportamento di voto in epoca pre-digitale, realizzate negli anni Quaranta e Cinquanta da Paul Lazarsfeld) è stato scoperto anche da chi promuove cause, idee e campagne politiche (recente la notizia di un tentativo di coinvolgimento di influencers da parte del PD di Matteo Renzi in vista del referendum costituzionale di autunno).
Anche l’ISIS ha scoperto il valore degli online influencers per promuovere la Jihad su scala globale, e non è un caso che i protagonisti di attacchi suicidi diventino subito dei protagonisti della sfera pubblica digitale fondamentalista, originando tentativi di emulazione da parte di followers facilmente suggestionabili. Il ruolo degli influencers che stanno dalla parte sbagliata e degli sprovveduti followers è stato ad esempio molto dibattuto a seguito dei più recenti casi di attacchi di matrice terroristica in Francia e Germania.
Il caso di Monaco di Baviera dimostra però che la rete, da veleno, può facilmente trasformarsi in antidoto contro la degenerazione di episodi isolati in ansia e panico generalizzati.  Su Twitter, ad esempio, la Polizia Tedesca ha potuto informare in maniera corretta e precisa i cittadini e ha trovato una modalità efficace e innovativa per gestire l’ordine pubblico, la cui instabilità sarebbe potuta diventare un ottimo alleato per eventuali emulatori dell’attentatore. Già in occasione degli attacchi di Parigi e Bruxelles, Twitter si era dimostrato un efficace strumento per pratiche di citizen journalism da parte di cittadini inermi scampati alle stragi terroristiche, oppure per permettere agli abitanti delle zone colpite di mostrare la propria disponibilità ad accogliere chi si trovava per strada (con il celebre hashtag #pourteouverte). In questo caso, la Polizia Tedesca non solo si è servita del medium di microblogging per informare e portare ordine, ma ha anche chiesto ai cittadini di Monaco di non postare foto delle vittime appena massacrate, con un’operazione di educazione al corretto uso dei social media che solo una branca del potere statuale può svolgere nel miglior modo.

Il caso di Monaco dimostra quindi che le più importanti piattaforme digitali, sotto accusa oggi per dare troppo spazio alla voce dei cattivi influencers, potranno certamente diventare uno strumento di alfabetizzazione digitale, in particolare nell’era dell’ubiquità dell’immagine e della facile diffusione dei video (che in altri contesti sono ad esempio all’origine di fenomeni di cyberbullismo tra i giovani in età scolare), solo se cederanno parte della sovranità su algoritmi e dati degli utenti ai portatori di interessi collettivi facenti parte dell’apparato statale. 

domenica 3 luglio 2016

Come nasce “Ci sarà Un Posto Al Sole per Netflix?”

Dopo il fortunato incontro dello scorso aprile “Twitto quindi tifo”, che è stata anche un’originale occasione per discutere della mia prima monografia Deciders. Chi decide sulla rete (Dante & Descartes, Napoli 2015), lunedì 4 luglio, alle ore 18.30, torno da IOCISTO per presentare il mio secondo volume, Effetto Netflix. Il nuovo paradigma televisivo (Egea, Milano 2016), un saggio sulle nuove frontiere della televisione e della produzione audiovisiva in Rete.
Anche stavolta, d’accordo con i relatori e con i soci della prima libreria dei cittadini di Napoli, ho deciso di introdurre nella sala delle presentazioni di IOCISTO un incontro dibattito, che partendo dai temi trattati nel libro, si concentri su presente e futuro delle serie tv e l’ho intitolato, con una domanda (quasi) retorica, “Ci sarà Un Posto al Sole per Netflix?”.
Proveranno a rispondere con me a questa domanda, stimolando anche il dibattito con pubblico, Francesco Pinto, direttore del Centro di Produzione TV RAI di Napoli, che per primo mi ha spinto a lavorare ad una pubblicazione su Netflix, e che mi ha seguito attentamente in tutte le fasi precedenti e successive l’uscita del saggio; Fabio Sabbioni e Paolo Terracciano, rispettivamente produttore creativo e head writer di Un Posto Al Sole, che hanno accettato volentieri di portare il punto di vista di chi lavora da anni alla serie al tavolo di discussione; Sergio Brancato, sociologo della comunicazione e dei media, professore associato all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, massimo esperto di serialità audiovisiva.
Ho scelto di presentare Effetto Netflix partendo da Un Posto Al Sole, perché ritengo che la produzione interamente partenopea sia stata, a metà anni Novanta, l’unico tentativo di risposta non autoreferenziale della serialità italiana, e in particolare di quella del broadcaster di servizio pubblico, alle nuove tendenze dell’audiovisivo contemporaneo. Da questo punto di vista non è quindi sbagliato ritenere Un Posto Al Sole, considerato troppe volte dalla stampa e dalla critica uno dei prodotti più tradizionali della fiction televisiva italiana, un punto di svolta nel panorama dell’audiovisivo italiano, allo stesso modo in cui in questi mesi è stato presentato l’esordio della piattaforma televisiva on demand Netflix, che punta ad inserirsi come “tutta un’altra storia” nella tv italiana. Dall’altro lato, se è vero che Un Posto Al Sole punta fortemente alla fidelizzazione della community di fan e appassionati tramite il web e i social, la costruzione, anche narrativa, della serie presenta molte differenze rispetto ai prodotti fruiti in streaming, in modalità binge watching, su Netflix.
Per cui, sebbene la risposta alla domanda che intitola il dibattito si debba ritenere probabilmente negativa, non mancheranno spunti interessanti di confronto tra le due esperienze televisive portate avanti dalla tv algoritmica di Los Gatos e dalle vicende ambientate nel condominio di Palazzo Palladini, che da vent’anni riempiono i palinsesti serali di Rai Tre.
Netflix, a dimostrazione dell’importanza assunta dalla serialità audiovisiva nell’immaginario postmoderno, punta decisamente su prodotti classificabili come TV series per arricchire il suo catalogo. Grazie alla capacità di analisi delle preferenze e delle modalità di consumo degli abbonati veicolata dal sistema di funzionamento della piattaforma creata da Reed Hasting, Los Gatos è riuscita negli anni a rafforzare la sua immagine e il suo posizionamento nell’universo televisivo, dominato da un brand come HBO, producendo prodotti raffinati e in linea con le esigenze del suo pubblico come House of Cards, Orange Is The New Black, Narcos, Daredevil. Su queste serie, fra l’altro, Netflix investe molto anche sul versante promozionale, con un forte impegno sui social media (i vari profili Facebook e Twitter sono molto apprezzati dagli utenti, anche per l’uso disinvolto e sapiente delle forme di comunicazione virale, dalle gif ai mash up, più diffuse sulle piattaforme di social networking), e una notevole attenzione al mondo tradizionale dell’audiovisivo, testimoniata, lo scorso anno, dalla presenza al Festival di Cannes, e quest’anno, dai 9 kg di DVD dei Netflix Originals inviati a tutti i giurati degli Emmy Awards in vista della cerimonia di premiazione di settembre. Anche per il suo arrivo nei nuovi Paesi, Netflix sta cercando di posizionarsi con serie originali, come Marseille in Francia, 3% in Brasile e Suburra in Italia (prodotto in collaborazione con RAI, e affidato a Cattleya, disponibile sulla piattaforma il prossimo anno).
D’altronde, se interpretiamo la domanda di partenza chiedendoci se Netflix avrà “un posto al sole” nella tv italiana, al momento la risposta non può che essere interlocutoria, visti i risultati ancora in debole crescita del colosso di Los Gatos nel Belpaese. Quel che invece è certo è l’insieme di nuove idee, energie e sinergie produttive che l’arrivo di Netflix ha portato nel sistema audiovisivo e nel mondo televisivo italiano, servizio pubblico compreso.

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giovedì 26 maggio 2016

I Netflix Originals all’europea: Marseille

Marseille, serie in otto puntate con Gerard Depardieu che interpreta il sindaco dell’omonima città che cerca la riconquista del suo scranno tra intrighi politici e familiari, segna l’esordio dei Netflix Originals, ovvero dei prodotti originali (non acquistati da terzi) di Netflix, in Europa. Distribuito globalmente, in tutti i quasi 200 Paesi in cui l’Over-The-Top TV creata da Reed Hastings è presente, con doppiaggio e sottotitoli, il 5 maggio (anniversario della morte di Napoleone Bonaparte, data già celebrata nella famosa ode manzoniana), nell’interezza di tutte le sue puntate (secondo la modalità di distribuzione per binge viewers tipica di Los Gatos), Marseille viene dopo l’esperimento di Narcos, serie pensata per il Messico e i latinos americani, diventata poi un successo planetario (seguita dall’ironico Club Curvos), e anticipa altri prodotti europei che saranno disponibili sulla piattaforma nel 2017, come l’italiano Suburra ed il tedesco Dark. Con la serie ambientata nella seconda città transalpina, Netflix si avvicina al mondo produttivo europeo, cominciando proprio dal Paese da cui partirà la sfida di Vivendi, la società di Vincent Bollorè, intenzionata, dopo aver acquisito partecipazioni in Telecom Italia, Mediaset e in alcune case di produzione (tra cui il terzo gruppo europeo del comparto, Banijay), a lanciare una piattaforma per la produzione e distribuzione di prodotti audiovisivi online.
Marseille è stato etichettato da molti come l’House of Cards francese, sottovalutando le molte differenze che esistono tra i due prodotti e soprattutto tra le vicende che le due serie raccontano. Se il racconto della scalata alla Casa Bianca di Frank (e Claire) Underwood avviene in un contesto nazionale, la sfida tra Taro e il suo ex delfino Barres si gioca in un contesto locale, a ricordarci l’ importanza delle città e delle aree urbane in Europa, resa ancora più evidente dal clamore suscitato dalla recentissima elezione di Sadiq Khan a Sindaco di Londra; all’immensa e ordinata periferia delle primarie USA si contrappongono, in Marseille, le conflittuali banlieu caratterizzate dalla scarsa integrazione razziale; se in House of Cards la campagna elettorale era tutta basata su manipolazione dei dati degli elettori e ricorso spasmodico ad Instagram, in Marseille tornano alla ribalta passeggiate nei mercati rionali, affissioni e volantini; al confronto bipartitico tra repubblicani e democratici, tipico dell’universo politico USA, si oppongono, infine, le alleanze e gli accordi elettorali sottobanco tipici dell’Europa mediterranea (che gli spettatori italiani sentiranno molto vicini viste le imminenti elezioni amministrative).

In sostanza Marseille porta, non solo nella produzione, ma anche nei temi e nei personaggi, un tocco di Europa sulla piattaforma globale Netflix: la domanda da porsi è se, a seguito dei primi Netflix Originals del Vecchio Continente, i produttori e consumatori inizieranno a chiedere un Netflix tutto europeo (sotto le ali di Vivendi) o si accontenteranno dello spazio riservato alle produzioni continentali nella “più grande Internet TV” (definizione di Reed Hastings).

giovedì 28 aprile 2016

Netflix, simbolo della tv che cambia.

Da Don Matteo ad House of Cards, passando per The Jackal e gli YouTubers, il saggio di Francesco Marrazzo “Effetto Netflix” descrive nuove strade per produttori e professionisti dell’audiovisivo

Rai, Vivendi, Telecom e tutti gli operatori europei coinvolti nel nuovo scenario televisivo, dettato dalla convergenza tra reti e contenuti, dichiarano di voler dar vita ad una propria Netflix, di servizio pubblico o mediterranea che sia.
Secondo le recenti dichiarazioni di Reed Hastings, suo creatore, “Netflix è la più grande rete di Internet TV del mondo, con oltre 70 milioni di abbonati in più di 190 paesi, che ogni giorno guardano più di 125 milioni di ore di programmi televisivi e film, tra cui serie originali, documentari e lungometraggi”. Non stupisce, da questi pochi ma significativi dati, che Netflix – primo operatore globale di questo tipo, in Italia dall’ottobre 2015 – sia ormai diventato il passepartout per indicare l’Over-The-Top TV, una nuova forma di distribuzione di contenuti televisivi (a pagamento) che sfrutta l’apertura della rete e la possibilità per l’utente di utilizzare più dispositivi connessi (dalla smart TV al PC, dalla game console al tablet) per fruire dei nuovi servizi.
Francesco Marrazzo, giovane sociologo dei media, attualmente docente a contratto di “Marketing e nuovi media” presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli “Federico II”, già autore di “Deciders. Chi decide sulla rete”, ha provato ad esplorare in “Effetto Netflix. Il nuovo paradigma televisivo”, pubblicato questo mese nella collana Studi e Ricerche della casa editrice dell’Università Bocconi di Milano Egea, la portata rivoluzionaria del modello Netflix, guardando non solo alle nuove modalità di consumo dei contenuti audiovisivi in rete, quanto alla vera e propria svolta paradigmatica introdotta dalla tv globale californiana nel modo di fare e concepire televisione.
Dopo aver delineato, con l’ausilio di dati provenienti da numerosi report e ricerche internazionali, il nuovo ecosistema globale della comunicazione audiovisiva in rete, il libro ricostruisce la storia di Netflix, dal noleggio DVD allo streaming, e in particolare la sua espansione internazionale ed europea, soffermandosi sul suo arrivo in Italia e sui fattori strutturali del nostro sistema-Paese che rendono così difficile questo passaggio paradigmatico nella tv nostrana (bassa diffusione della banda larga, mancata alfabetizzazione digitale, pirateria, scarso interesse della politica e dell’impresa italiana verso il settore delle comunicazioni). Nella seconda parte, invece, l’Autore entra nel pieno delle sue tesi di partenza, mostrando da un lato come il sistema di funzionamento di Netflix, basato sull’algoritmo, permetta una reale svolta nel modello televisivo, prima basato sul palinsesto, e d’altro lato, come il nuovo tipo di tv internazionale creato da Reed Hastings possa consentire inedite occasioni di crescita per l’industria della produzione audiovisiva in tutto il mondo.
Tramite schede di approfondimento e dettagliati focus tematici, Effetto Netflix permette al lettore, studioso o appassionato della materia, di aggiornarsi sulle strategie dei nuovi players dell’entertainment (a partire da YouTube), di costruirsi un piccolo dizionario delle nuove forme di televisione online, di approfondire le dinamiche della TV generalista italiana in seguito all’avvento di operatori stranieri come Sky e Discovery, di trovare inedite connessioni tra i palinsesti della Rai di Bernabei e quelli delle tv tematiche, di esplorare le ragioni politiche, economiche e regolamentari che segnano la differenza tra il comparto della fiction italiano e quelli di altri Paesi europei, di conoscere le più recenti tendenze nell’ambito delle narrazioni audiovisive seriali.
Numerosi anche gli esempi e i casi di studio citati dall’Autore, riferiti in particolare ai recenti successi della fiction generalista (Don Matteo) e della serialità on-demand (House of Cards), nonché ai nuovi produttori di webseries (The Jackal e i cosiddetti YouTubers).
Nelle conclusioni del saggio, non a caso, Francesco Marrazzo sottolinea proprio come la rivoluzione televisiva simboleggiata da Netflix possa costituire anche in Italia un’inedita occasione grazie a cui produttori e giovani professionisti del settore possono trovare una nuova dimensione globale nello scenario dell’audiovisivo connesso.

Per maggiori informazioni:

Come acquistare il libro:
“Effetto Netflix. Il nuovo paradigma televisivo” è disponibile in E-Pub e PDF (a 11,99 euro) sulla piattaforma web dell’editore Egea, in formato Kindle su Amazon (a 11,99 euro), in cartaceo tramite la piattaforma Egea (a 18,70 euro), in tutte le librerie secondo la formula print-on-demand (a 22 euro). Attualmente, il volume è disponibile presso la libreria Ubik di Napoli (Via Benedetto Croce, 28) e il bookshop Egea di Milano (Via Ferdinando Bocconi, 8).

Contatti dell’autore:
Francesco Marrazzo

mercoledì 13 aprile 2016

Perché Twitto quindi tifo

Ad alcuni mesi dalla pubblicazione del mio primo saggio “Deciders. Chi decide sulla rete” (Dante & Descartes, Napoli 2015) era venuto ormai il tempo di presentarlo da Iocisto, prima libreria dei cittadini a Napoli e primo caso partenopeo di relazione diretta tra social media e impegno civico in campo culturale, a cui non a caso dedico uno spazio fisso nel mio corso di “Marketing e nuovi media” presso il Dipartimento di Scienze Sociali della Federico II.
Piuttosto che presentare in maniera monodirezionale, con l’ausilio di qualche relatore, i temi oggetto del mio volume, ho deciso, però, in coerenza con lo spirito aperto e partecipativo della libreria, di proporre un dibattito, scegliendo come argomento elettivo per sviluppare le tematiche di Deciders il tifo online. Ho immediatamente coinvolto Francesco Pirone e Luca Bifulco, ricercatori in Sociologia Generale ed attenti studiosi del fenomeno calcistico (a cui hanno dedicato numerose pubblicazioni, seminari di approfondimento ed incontri pubblici), ho chiesto ad Anna Trieste, giornalista e comunicatrice nota per i suoi tweet sul Napoli Calcio, e da alcune settimane protagonista delle prime pagine de Il Mattino e dei dibattiti televisivi del Processo del lunedì su RaiTre, di partecipare all’evento, ne ho parlato con Adolfo Fattori, sociologo, formatore e socio attivo di Iocisto, che si è offerto di moderare il dibattito.
È nato così “Twitto quindi tifo”, questo il titolo dell’incontro dibattito su tifo e social media che si terrà domani, giovedì 14 aprile, alle 18 presso Iocisto (Via Cimarosa, 20, Piazza Fuga, Napoli).
Perché proprio il tifo online per discutere di un volume che parla di hate speech, socialità e politica in rete, memoria e ruolo delle piattaforme digitali? La risposta è semplice e al tempo stesso molto articolata, visto che nel tifo online si ritrovano alcuni fenomeni ascrivibili alle principali dinamiche e tendenze sociali, politiche e comunicative dell’ecosistema digitale:
·         il tifoso si esprime online usando ironia e sarcasmo, in perfetto stile social, come attestano ad esempio le ricerche della sociologa Sara Bentivegna sulla dimensione politica di Twitter, che spesso si trova intrecciata alla sfera calcistica e sportiva;
·          i contenuti promossi dai media mainstream in relazione all’universo calcistico seguono, nella loro diffusione online, le stesse dinamiche partecipative, di spreading e mash up, tipiche dei contenuti user-generated, e messe in evidenza dalla ricerca accademica (da Henry Jenkins ai critici marxisti) sul ruolo degli utenti nei social media (Facebook) e negli online video aggregators (YouTube);
·         con la disintermediazione dei contenuti, emergono nuovi opinion leaders sui social media e nuovi riferimenti (utenti hub) per i tifosi, e il giornalismo sportivo deve rincorrere e recuperare la fiducia dei lettori (così come accade al giornalismo politico);
·         sui social media si ritrovano forme di civic engagement, anzi di cheering engagement, tramite cui i cittadini diventano attori e protagonisti di proteste o petizioni relative ai campionati calcistici, ai loro beniamini sportivi, al racconto della loro squadra veicolato dai mass media;
·         un fenomeno come l’hate speech online (banalmente: attacchi di odio contro gruppi e persone basati su discriminazioni etniche, razziali o sessuali, veicolati su social network, forum, e altri spazi di discussione online), trasversale a tutti i temi e gli ambiti della vita sociale e politica, trova un’inedita dimensione anche nel mondo dello sport, e del calcio in particolare, in un cortocircuito comunicativo con le dichiarazioni di allenatori e dirigenti calcistici e con i cori e gli striscioni che animano gli stadi durante le partite.

Analizzeremo questi e altri fenomeni con esempi concreti (dal gruppo Facebook “No Higuain No Pay TV” alle reazioni al tweet su Higuain dell’europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, dai commenti online alle dichiarazioni di Arrigo Sacchi sui troppi calciatori stranieri nei tornei giovanili, alla solidarietà seguita agli attacchi alla squadra dilettantistica “Afro Napoli United” sulla relativa pagina Facebook), cercando di comprendere gli aspetti sociali e comunicativi più o meno positivi connessi al tifo online, e augurandoci di suscitare interesse, curiosità, domande e dibattiti nel pubblico di giornalisti, tifosi, studenti o semplici curiosi.

giovedì 24 marzo 2016

La normalizzazione della rete dopo Bruxelles.

Due giorni dopo il doppio attentato di matrice jihadista all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles, mentre importanti esponenti politici ed istituzionali iniziano ad ammettere candidamente che ci troviamo ad affrontare non una emergenza temporanea ma una situazione “ordinaria” di conflitto, anche gli utenti della Rete e i gestori dei social media provano a tracciare un percorso di rassegnata e amara normalizzazione del loro rapporto con le stragi targate ISIS.
Confrontando il racconto e le reazioni ai fatti di Bruxelles sulle più note piattaforme sociali di condivisione con quanto accaduto per quella di Parigi dello scorso novembre, notiamo innanzitutto che su Twitter sono stati riproposti hashtag come #porteouverte e #openhouse che hanno permesso a molte persone per strada, impossibilitate a spostarsi in metropolitana, di trovare un posto sicuro per rifugiarsi. Le potenzialità di citizen journalism che il sito di microblogging aveva dimostrato lo scorso novembre sono state invece sminuite forse anche a causa dei luoghi degli attentati, hub di trasporto pubblico blindati subito dopo i tragici eventi, e per questo meno “vissuti” delle strade, dei ristoranti e dei locali teatro della strage parigina.
Su Facebook, invece, è stata riproposta la funzione safety check, che ha permesso agli utenti di sapere che i loro conoscenti, a Bruxelles (principalmente) per lavoro, stessero bene. Menlo Park stavolta non ha proposto nessuno sfondo per l’immagine di profilo, forse anche perché i due precedenti (la bandiera della pace dopo la storica sentenza della Corte Suprema USA sui matrimoni gay e la bandiera francese dopo i fatti di Parigi) erano stati molto criticati, visto che molti commentatori e utenti più smaliziati avevano visto nella mossa dell’azienda una nuova modalità di profilare gusti e comportamenti degli utenti ai fini dello sviluppo di prodotti e accordi pubblicitari. Su Facebook e sui fratelli minori Instagram e Whatsapp (rispettivamente social network fondato sulle immagini, e app di messaggistica istantanea da qualche anno di proprietà di Mark Zuckerberg), ha però spopolato il disegno del vignettista di Le Monde Plantu, in cui la bandiera francese abbraccia quella belga in lacrime e sono impresse due date: Parigi, 13 novembre; Bruxelles, 22 marzo.
Sui più noti social network gli utenti hanno mandato messaggi di solidarietà con l’hashtag #PrayForBelgium (sull’eco di #PrayForParis), ma anche in questa occasione non sono mancate voci di polemica e le critiche per quello che è successo.
In particolare, la presenza di Matteo Salvini, europarlamentare e leader della Lega Nord, a Bruxelles, e il fotoracconto in diretta dalla capitale belga veicolato sul suo profilo Twitter hanno generato, come spesso accade per il politico milanese, aspre e violente discussioni tra gli utenti italiani. Non è un caso che le “folle polarizzate” su Twitter abbiano acceso lo scontro intorno alle dichiarazioni di un soggetto politico, riportando in rete toni tipici della discussione politica dei peggiori talk show ed esasperate pratiche di sousveillance nei confronti degli esponenti partitici, spesso alla radice di discorsi di hate speech online, che fortunatamente sono state condite da una dose di ironia, che rimane l’unica ancora di salvezza nel panorama italiano di Twitter.
Il caso Salvini a Bruxelles dimostra ancora una volta che la Rete rimane luogo dei sentimenti forti, di odio, e di amore (#love è stato pur sempre l’hashtag più utilizzato su Instagram nel 2015), così come di speranza e solidarietà. Sembra quindi difficile capire come le logiche emozionali dei social media potranno conformarsi alla normalizzazione del dibattito intorno a quella che è stata già ribattezzata la nuova guerra dei Trent’Anni, guidando i cittadini e gli utenti, anche i meno informati di storia e geopolitica internazionale, a comprendere e discutere razionalmente degli sviluppi relativi al nuovo scenario globale. Si tratta di una sfida nuova che certamente non potrà essere affrontata dalle sole multinazionali del Web 2.0, ma che richiede una nuova consapevolezza della Rete anche da parte di istituzioni, opinion leaders, e associazioni civiche, sempre più spesso impegnate a diffondere i propri messaggi sui social network.


venerdì 4 marzo 2016

In tv Don Matteo, sul tablet Netflix: fino a quando?

Ieri sera, le due puntate di Don Matteo in onda su RaiUno hanno fatto registrare, in media, 7 milioni di spettatori, con uno share pari al 28,3%. Nella prima puntata di questa stagione (la decima), che aveva visto la partecipazione straordinaria di Belén Rodriguez, gli spettatori avevano sfiorato la cifra record di 10 milioni (con share al 34%), e le puntate successive si sono sempre mantenute su cifre pari a 7 o 8mila (con share talvolta vicini al 40%). Lo spettatore di Don Matteo, che è soprattutto donna (62%) e over 65 (41%), secondo quanto riportato da Aldo Grasso sul Corriere della Sera, è abituato ad una scrittura semplice e lineare, completamente diversa dagli universi narrativi multipli che hanno fatto il successo delle prime serie cult USA. Lo spettatore di Rai Uno, che vede Don Matteo in primis perché trasmesso dalla sua rete di elezione, confida sul fatto che Terence Hill risolva sempre i casi in cui, in questa versione all’italiana di crime (dove ai detective si sostituiscono preti o maestre, come in Provaci ancora prof), si imbatte, storie che avvengono in un contesto di provincia, quella italiana, in cui, bene e male sono chiari in maniera manichea, contribuendo ad un’immagine televisiva molto costruita, ma per questo rassicurante, da cui lo spettatore, magari donna e pensionata, si fa cullare, se non incantare.
Su Netflix, in questi primi mesi in cui il catalogo è a disposizione degli utenti italiani, tra le strisce e le raccomandazioni, emerge un prodotto originale (ovvero non acquistato, ma su cui Netflix ha direttamente investito), Bloodline, un serial in 13 puntate (tutte disponibili contemporaneamente, per i maratoneti del binge viewing), caratterizzato dalla suspense e soprattutto dal tono cupo con cui viene narrata la vicenda,  un dramma a sfondo familiare che si consuma nel contesto vacanziero, ma chiuso e provinciale, delle Key Islands (Florida).
La trama, che evita ogni incursione nel campo della morale e dei temi cosiddetti sociali, le modalità di racconto, fatto di complessi rimandi narrativi, la classificazione, fatta con tag e metadata che inaugurano una nuova sintassi dei generi (“cupo dramma familiare con suspense ambientato in Florida” è la definizione proposta da Netflix che si contrappone al generico “poliziesco” che mal si adatta al Don Matteo della Rai così come ad alcuni poliziotteschi di Mediaset), portano lo spettatore in un nuovo mondo, rispetto alla prima serata generalista della fiction nazionale, da cui, non a caso, il pubblico giovane  e colto sempre più rifugge.
Se per ancora un po’ di anni la Rai di Don Matteo riuscirà comunque ad attrarre ampie fasce della popolazione italiana, sfruttandone la crescente anzianità, dovuta al calo della natalità, all’aumento dell’aspettativa di vita, ma anche alla fuga di giovani cervelli dall’Italia, e la relativa scarsa alfabetizzazione digitale, è in questo momento di delicata transizione che il pubcaster non può permettersi di festeggiare questi risultati di audience, che comunque non possono rappresentare l’unico parametro di valutazione, ormai rifiutato dagli operatori del web come Netflix e messo un po’ nell’angolo dai nuovi editori specializzati (Sky in Italia).

In questi anni la RAI si dovrà infatti porre seriamente il problema di quando tutto questo finirà. Le soluzioni sono ormai note, e già serpeggiano nelle cronache da Viale Mazzini: prodotti crossmediali, un ruolo di hub per le online video factories e i relativi format (web series) emergenti, il lancio di un servizio di video on-demand in abbonamento (SVOD) sul modello Netflix. Quello di cui però queste nuove piattaforme necessitano adesso è un progetto, organizzativo, culturale e politico, nel senso più ampio dei tre termini qui usati. Il nuovo management editoriale e corporate dell’azienda, un Amministratore Delegato dotato di ampi poteri, le nuove risorse del canone, e l’occasione del rinnovo della Concessione di pubblico servizio sembrano essere coincidenze troppo fortunate per poter essere disperse tra veti e incertezze, lottizzazioni e consorterie tipiche degli ultimi quarant’anni di servizio pubblico radiotelevisivo.